I luoghi di “Il Tesoro della Certosa” : Napoli ai tempi di Masaniello
Quando si parla della Napoli del dopo Masaniello – il romanzo è ambientato infatti dopo poco più di un anno dalla tragica fine di uno dei più famosi capipopolo al mondo – ci si riferisce ad una delle metropoli e delle capitali più grandi d’Italia e d’Europa.
Una città piena di contraddizioni. Pur dipendendo, con scarsa autonomia amministrativa, da Madrid, sede di uno dei più potenti e moderni tra gli stati europei dell'epoca, accentratore, autoritario e fautore della decisa prevalenza del potere regio sui vari ceti sociali, Napoli resta la capitale che dai tempi di Carlo I d’Angiò governa sotto di sé buona parte d’Italia.
Una metropoli burocratica e allo stesso tempo signorile e prestigiosa, con una corte particolarmente attiva e vivace che attira baroni e nobili di vario titolo da tutto il meridione alla ricerca, grazie alla vicinanza alla reggenza spagnola, di quel potere che non possono più esercitare nei loro territori in maniera quasi autonoma e in contrasto all’autorità regia come facevano nel periodo feudale.
L’imponente struttura amministrativa e giudiziaria deve gestire un territorio ampio e diversificato, tenendo a bada gli interessi ed i conflitti delle diverse parti sociali e curandone i rapporti con l’avida casa regnante spagnola e così si sviluppa in corti, consigli e tribunali.
Le competenze del Consiglio Collaterale o Supremo, del Consiglio di Stato, del Consiglio di Santa Chiara, del Tribunale della Regia Camera, del Tribunale della Gran Corte della Vicaria e di altri tribunali minori si accrescono sempre più e si accavallano e si incrociano in una moltitudine di provvedimenti, privilegi, gabelle, dando lavoro, tra gli altri, ad uno dei più vasti e nutriti apparati forensi d’Europa.
La vita religiosa è intensa, stratificata in chiese, conventi e monasteri, ordini religiosi che, al di là dei rapporti con Roma, rappresentano spesso dei veri autonomi potentati economici, e si intreccia con le credenze, gli usi e i costumi popolari. Ha i suoi principali centri di potere nell’Arcivescovado e nella Nunziatura Apostolica, con i loro Tribunali, le loro carceri ed un fitto intreccio di prebende e privilegi.
La città non ha un suo autonomo tessuto produttivo, industriale o agricolo, ma la presenza della corte e degli altri centri di potere, l’intensa attività di uno dei porti commerciali e militari più importanti dell’intero Mediterraneo e le dimensioni sempre più impegnative della popolazione la rendono un polo di attrazione che assorbe risorse economiche ed umane non solo da tutto il Sud Italia, ma dal resto del paese e da tutte quelle aree geografiche europee e mediterranee con cui la Dominante intreccia i suoi rapporti.
La città per tutto ciò di cui ha bisogno in tema alimentare, di beni di consumo e di materie prime si approvvigiona dai territori circostanti: dalle verdi colline del Vomero e di Capodimonte alle fertili pianure della Campania Felix; dalle pendici del Vesuvio e dei suoi borghi circostanti, al pescoso mare del suo golfo e delle isole, dalle fertili terre della Puglia alla risorse della Calabria e delle regioni montuose del Molise e dell’Abruzzo e, per tutto ciò che ancora serve alla città ed ai suoi abitanti, dai fiorenti traffici marittimi con i paesi del Mediterraneo e del Nord Europa.
Nonostante il suo ruolo accentratore e di guida dell’intero vice regno, la città non sviluppa però in maniera autonoma quel tessuto sociale intermedio tra la nobiltà ed il popolo che con il tempo avrebbe potuto dare vita a quella che oggi definiamo borghesia. Gran parte infatti delle attività finanziarie e mercantili sono nelle mani dei forestieri, non solo genovesi, fiorentini, pisani, ma anche fiamminghi, catalani, marsigliesi che concentrano le loro attività e le loro residenze in precise parti della città, influenzandone spesso la lingua ed anche la toponomastica con termini e denominazioni in molti casi sopravvissuti fino ai giorni nostri.
Le arti e i mestieri invece proliferano, organizzati in confraternite autogestite che curano gli interessi delle categorie e cercano di contrastare le pretese di governo, clero e nobiltà, e spesso provvedono a vere e proprie attività di mutuo soccorso, antesignane dei moderni sindacatati e casse previdenziali.
Le 32 corporazioni dell’Annona, cioè l’insieme delle “arti” che provvedono ai rifornimenti dei beni di prima necessità dell’intera città e della loro distribuzione, sono soggette ad apposite Leggi che impongono l’obbligo di iscriversi ai rispettivi corpi d’arte o presso il Tribunale di S. Lorenzo e ne regolano l’attività fin nei minimi particolari. Sono sotto il controllo dell’Eletto del Popolo, cioè del principale esponente di quel Seggio che insieme agli altri cinque espressi dalla nobiltà in cui è divisa la Città, Capuana, Montagna, Nido o Nilo, Porto e Portanova, rappresentano il Governo della Città, affiancando il viceré e contestandone spesso le decisioni.
Una carica, quella dell’Eletto del Popolo, che però, ai tempi di Masaniello, è di nomina vicereale, cosa che in pratica ne vanifica profondamente l’autonomia assoggettandolo ai voleri del viceré. Uno degli obblighi soggetti al suo controllo è il pagamento delle gabelle su tutti i generi di consumo, vera e propria tassa indiretta su cui si regge la fiscalità del Regno, gestita direttamente tramite la Regia Camera della Sommaria e i suoi uffici centrali e periferici, oppure attraverso il sistema degli arrendamenti ed una fitta rete di figure addette, come banchi, notai, procuratori e soprattutto privati. Gli arrendamenti, cioè il diritto a riscuotere le gabelle, sono in sostanza “venduti” agli arrendatori di cui fanno parte mercanti, banchieri, finanzieri, nobili ed enti religiosi, con il “privato” che si è andato via via sostituendo al “pubblico”, spesso anche nei rapporti con la stessa casa regnante.
Tra queste imposizioni c’è quella gabella sulla frutta il cui inasprimento, come sappiamo, è stata la scintilla da cui si è sprigionata la rivolta capeggiata da Tommaso Aniello d’Amalfi un anno prima, nel luglio del 1647, i cui sviluppi vedremo più da vicino nel prossimo romanzo di questa mia saga dedicata alla Napoli dei tempi di Masaniello.
Napoli, dunque, è una metropoli che a metà del XVII secolo è una delle città più popolose d’Europa, in competizione con la sola Parigi, con oltre 300.000 abitanti che si riversano in un nucleo abitativo stretto nelle sue mura, caratterizzato da una struttura edilizia caotica e sviluppata in altezza tanto da apparire, per l’epoca, una città di grattacieli e che straripano nei suoi borghi popolosi fuori le mura. Oltre 20.000 abitazioni non bastano e la città è piena di plebaglia, alla ricerca di un qualunque lavoro, stracciona, affamata, spesso senza neanche un tetto sopra la testa, attirata nella città da condizioni di vita che, benché misere e fatiscenti, sono spesso migliori di quelle ancor più precarie offerte loro da baroni e feudatari nelle loro terre di origine.
Ai tempi della nostra storia, estate del 1648, Napoli e l’intero suo territorio circostante sono ancora sconquassati dalla rivolta popolare del luglio dell’anno precedente, che non è terminata con l’assassinio di Masaniello, ma si è protratta per tutto l’anno successivo. Nuovi tafferugli si sono verificati infatti già ad agosto di quell’anno e sono proseguiti a lungo, in un braccio di ferro tra governo spagnolo e fazione cittadina che con alterne fortune hanno presidiato ciascuno parte della città, confrontandosi in scontri, bombardamenti ed esecuzioni sommarie fino al prevalere a fine anno della fazione filo francese che sotto la protezione del Re di Francia ha portato alla proclamazione, il 22 ottobre 1647, della Serenissima Real Repubblica Napoletana, capeggiata dall’armaiolo Gennaro Annese e con Enrico II duca di Guisa doge della Repubblica.
Una breve parentesi che è durata pochi mesi, con la fazione dei rivoltosi divisa tra orangisti, filo spagnoli e popolari, divisi come già accaduto con la rivolta di Masaniello, che alla fine ha fatto il gioco della casa regnante spagnola, che, fiaccata dalla Guerra dei Trent’anni, non poteva certo affrontare una debacle definiva anche a Napoli. Il 6 aprile 1648 le truppe spagnole riprendono definitivamente possesso della città ed inizia la ricostruzione della città devastata da incendi, macerie, barricate e distruzioni varie che il nuovo viceré, Íñigo Vélez de Guevara conte di Oñate, affronta con la stessa determinazione con cui comincia a normalizzare i rapporti con le varie parti sociali, con benevolenza verso i ceti più deboli e maggior rigore verso la parte nobile, con estrema crudeltà verso chi ha tradito.
Questa breve nota ha l’obiettivo di dare un’idea di massima del clima in cui anche la vita di Lorenzo e dei suoi amici e avversari de “Il Tesoro della Certosa” prova a tornare ad un’agognata normalità, senza sapere cosa gli sta prospettando il fato nel loro futuro prossimo venturo.
Altri approfondimenti seguiranno per illustrare meglio luoghi, personaggi e dettagli. Se ti interessa seguirmi in questo mio percorso, iscriviti alla newsletter e/o alla pagina Facebook.
Alla prossima!
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